La Recording Industry Association of America se la prende con gli studenti e le madri di famiglia.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 08-10-2007]
Alcuni giorni fa la giustizia americana ha condannato una casalinga e madre di due studentelli - certa Jemmie Thomas - al pagamento di ben 222.000 dollari (poco più di 157.000 euro) per violazione di copyright e aver condiviso sull'internet file musicali protetti dal DRM.
La sostanza del dibattimento svoltosi presso un tribunale del Minnesota, è presto riassumibile: nel 2005 secondo la Riaa sarebbero stati condivisi 1702 file tramite la rete Kazaa; la società Safenet, incaricata dalle major di tracciare i pirati, deve evidentemente aver avuto accesso diretto al computer della Thomas, poiché ha dichiarato che che la stessa, dopo aver ricevuto una diffida dalla Riaa, aveva sostituito l'hard disk per cancellare le tracce dell'illecito.
Tuttavia "mamma downloading" com'è stata subito soprannominata dai media, ha sempre negato ogni addebito, preferendo affrontare le spese di giudizio di circa 60.000 dollari in luogo di una transazione che avrebbe potuto aggirarsi su una cifra attorno ai 4.000, convinta che l'impossibilità di stabilire chi avesse in effetti manovrato il computer alle date e alle ore indicate dalla Safenet avrebbe costituito un valido motivo di assoluzione.
Ovviamente le reazioni sono state molteplici e di segno opposto; mentre le major osannavano all'imparzialità dei giudici, la Electronic Frontier Foundation ha deplorato l'accaduto sperando che la sentenza venga ribaltata in appello.
Ira Rothken, avvocato noto per aver difeso siti di peer-to-peer come TorrentSpy, faceva notare che una cosa è lucrare sulla distribuzione di brani contraffatti, mentre altra cosa è condividere i brani durante lo scaricamento, che è un fatto non volontario ma insito nella tecnologia del P2P, e quindi cosa ben diversa da una violazione del copyright.
Se dovesse essere confermata in appello, ovviamente la sentenza farebbe storia; anche perché secondo l'ordinamento giuridico americano le sentenze non si limitano a fare giurisprudenza ma sono norme del diritto positivo; stabilire il principio che la responsabilità (in questo caso penale) è dell'intestatario della fattura e non di chi abbia materialmente commesso l'illecito è una forzatura giuridica non da poco.
La decisione segue di pochi giorni un'analoga azione intrapresa contro gli studenti di diverse università, accusati di illegali download mediante i computer della struttura o le proprie macchine collegate al web dall'interno dei campus.
Anche qui la faccenda è seria; da un lato evidentemente la tecnologia usata dagli spioni - di chiara derivazione militare - consente l'accesso diretto alle macchine in barba a qualsiasi discorso sulla privacy; dall'altro è intuibile che i vari dirigenti accademici sono disposti ad adoperare il pugno di ferro contro gli studenti, se non altro per paura di perdere i cospicui finanziamenti delle aziende che, chi più chi meno, sono sensibili ai problemi derivanti dalle violazioni del diritto d'autore.
Resta il fatto incontrovertibile che negli USA, forse a causa dei timori dipanati dopo l'11 settembre, la privacy è un concetto ormai svuotato di significato pratico, visto che ormai si sottomette correntemente il diritto naturale agli interessi monetari di questo e quello; ma anche in questo caso ci si chiede cosa si voglia ottenere da parte di chi si atteggia ad alfiere del diritto e della libertà nel mondo.
Chi nutrisse dubbi in merito alla deriva giuridica in corso al di là dell'Atlantico, potrebbe cominciare a chiedersi i motivi del congelamento del giudizio dello Stato contro Microsoft (la violazione delle sacre norme sul commercio è reato federale) la quale, portabandiera di una discreta fetta del business USA è stata - almeno per ora - messa nell'angolo dalla vecchia Europa; che forse capisce poco di affari ma in definitiva non ha ancora scordato di essere stata la patria del diritto e la terra delle lotta per la libertà.
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