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Continueremo a credere a notizie false, i cacciatori di bufale da soli non bastano

Continueremo a credere a notizie false, i cacciatori di bufale da soli non bastano
Lo dimostrano i risultati di uno studio condotto da ricercatori italiani che hanno testato la reazione dei fruitori di teorie complottiste a 47,713 post di debunking. E i risultati sono inquietanti
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DA UNA PARTE ci sono loro: le notizie false, che su Facebook corrono velocemente. Dai nuovi, presunti, casi di Ebola al riscaldamento globale, passando per le campagne contro le vaccinazioni. Dall'altra, invece, chi quelle stesse notizie prova a smontarle. Come Paolo Attivissimo, Bufale.net, il neonato Emergent.info e il più datato Snopes. Peccato però che il loro lavoro non serva quasi a nulla, almeno secondo un nuovo studio presentato dal Laboratory of Computational social science dell'IMT di Lucca. Una ricerca che mina alle fondamenta non solo l'attività di debunking, cioè quella diretta a smascherare le informazioni farlocche. Ma anche tutti gli approcci adottati fino ad ora.  Da Mark Zuckerberg, che permette ai suoi utenti di segnalare i contenuti dubbi veicolati sulla piattaforma, come da Google, che sta studiando un modo per valorizzare i siti più affidabili. Con l'obiettivo di combattere  la disinformazione.

"Si tratta di approcci algoritmici che non funzionano per effetto del confirmation bias, ovvero del fatto che scegliamo solo i contenuti capaci di confermare le nostre idee", spiega a Repubblica.it Walter Quattrociocchi, coordinatore del laboratorio che ha condotto la ricerca. Un'analisi che si può dividere in due fasi. E che per cinque anni  - dal gennaio del 2010 al febbraio del 2014 - ha tracciato il comportamento di 54 milioni di cittadini statunitensi presenti su Facebook,  pescati in base al modo in cui si informano sul social: se fanno riferimento a dei siti scientifici (Science), o a quelli di informazione non tradizionale (Spirit Science). Nel primo step, il team ha studiato il modo in cui queste persone interagiscono con le relative fonti di riferimento. "In particolare", scrivono nel paper, "grazie alle dinamiche relazionali consentite dal network": mi piace; condivisioni e commenti. Fino ai risultati iniziali che confermano, in realtà, delle scoperte già fatte in precedenza, sempre per merito di Quattrociocchi&Co. In sintesi: le due tipologie di internauti tendono a creare degli universi paralleli con una propria dieta mediatica e i propri interessi; interagiscono molto poco tra loro, e quando lo fanno litigano; in più dedicano alle notizie lette pari quantità di attenzione.  
 
LE INCHIESTE: COME TI VENDO UNA BUFALA SUL WEB

Poi gli studiosi hanno testato il livello di efficacia di 47,713 post di debunking che puntavano a correggere una determinata bufala. A conti fatti, su  9, 790, 906 complottisti finiti sotto esame quelli raggiunti dall'informazione corretta, per almeno una volta, sono stati solo 117, 736. Un numero che scende a circa 5mila, se invece consideriamo un'esposizione continuata, che si è prolungata per più di un giorno. C'è dell'altro. "A essere coinvolti", racconta Quattrociocchi,  "sono stati gli utenti più arrabbiati che si impegnavano a contraddire la notizia vera, rinforzando l'informazione falsa. Infatti, i commenti che stimolano sentimenti negativi sono pari al 36 per certo del totale". Certo, resta da capire che cosa succede al di fuori delle due categorie e soprattutto fuori da Facebook. Ma la nuova analisi rimane un passo importante per comprendere come si diffonde la disinformazione in Rete, attorno a cui gravita persino un business. C'è una soluzione? Secondo il ricercatore "no". "Bisogna costruire strategie di comunicazione ad hoc", conclude. Stephan Russ-Mohl, direttore dell'Osservatorio europeo di giornalismo (EJO) e professore, non è così pessimista. "L'argomentazione offerta  è plausibile, ma plausibile non equivale sempre a vero... Io, comunque, non mi arrendo nel provare a fare debunking". Con i migliori omaggi al Sisifo tratteggiato da Camus e a Don Chisciotte.

 @RositaRijtano