Perché abbiamo il peggior capitalismo del mondo

Un saggio di Giuseppe Turani: un'analisi sufficientemente cattiva e lucida della nostra crisi e dei possibili modi per uscirne.



[ZEUS News - www.zeusnews.it - 02-03-2004]

Giuseppe Turani, fondatore dell'inserto Affari e Finanza del quotidiano "La Repubblica", di cui è da sempre il più prestigioso commentatore dei fatti dell'economia, si fa amare dai suoi lettori per un taglio chiaro, semplice, divulgativo, con cui si accosta ad un mondo di per sé arido e complicato. Soprattutto bisogna apprezzarlo per la franchezza e per i modi ruvidi e schietti con cui narra le vicende del capitalismo e dei capitalisti italiani della Old e New Economy.

Queste sue qualità si possono apprezzare anche in questo saggio, fresco di uscita, che già dal titolo si annuncia come non soft nei confronti della classe imprenditoriale italiana: "Perché abbiamo il peggiore capitalismo del mondo" che sembra più uno slogan bertinottiamo che il titolo di un libro di un giornalista borghese. Il libro vuole essere una diagnosi spietata, con qualche suggerimento di terapia, per il malessere etico prima che finanziario ed industriale che sta affligendo il sistema economico italiano, con una storia che va dal miracolo degli anni '50 e '60 alla vicenda Parmalat.

Dalle vicende Parmalat e Cirio si dipana il tutto: Turani non fa grandi giri di parole, Cragnotti e Tanzi, sia pure nella gravità patolgica delle loro gesta, sono uno specchio dell'industria del nostro Paese, con i suoi caratteri di amoralità, illegalità, che si estendono al sistema creditizio. Le banche nel caso di Cirio hanno scaricato i debiti di Cragnotti, attraverso la vendita dei bond, sui risparmiatori pur sapendo le condizioni disperate del Gruppo, e sempre le banche hanno permesso, con la propria scarsa vigilanza, il buco folle della Parmalat.

Da queste vicende che hanno inferto un vulnus, se non mortale, fortissimo al sistema Turani riprende le teorie del segretario generale del Censis Giuseppe De Rita per definire l'Italia come un Paese fermo, che non vuole più competere, più crescere ma solo vivere tranquillo e godersi la vita. Così Turani fotografa l'impresa italiana: Tanta genialità, molta improvvisazione, pochissima flessibiltà. Ma poca banca, poco mercato, poca Borsa, poco management qualificato.

Nel libro Turani seziona i dettagli della foto: poca Borsa e poco management qualificato perché la caratteristica del capitalismo italiano è di essere familiare e di non fidarsi della Borsa, e dell'intervento di manager esterni, per paura di perdere il controllo, di contare meno.

Senza Borsa non si hanno finanziamenti per marketing, pubblicità, innovazione, per allargarsi sui mercati, acquisire, e così si rimane piccoli, ma rimanendo piccoli si rimane tagliati fuori, sempre più indietro nella competizione internazionale. Anche il made in Itay, cioè le cose che sappiamo fare bene come scarpe, abiti, illuminazione, auto di lusso come la Ferrari, cibo, vino, hanno bisogno di dimensioni di scala che noi non abbiamo, che altri, come i francesi per esempio della Louis Vuitton o i tedeschi della Porsche possiedono, e anche in questo campo rischiamo di essere copiati, battuti sui prezzi ma anche sulla qualità.

Soprattutto siamo presenti in mercati statici, che non crescono come calzature ed abbigliamento, e dove è forte la concorrenza dei paesi emergenti, mentre nell'high-tech non esistiamo o quasi: in campo calzaturiero abbiamo una quota intorno al 15% del mercato mondiale ma questo cresce dell'1% all'anno, l'information technology cresce fra il 4 e il 5% all'anno e noi abbiamo una quota di mercato intorno all'1%.

Turani riprende l'analisi di Roberto Petrini che sulla base della classifica di Fortune sulle prime 500 aziende multinazionali del mondo per fatturato trova solo 9 soggetti italiani contro i 13 della Corea del sud, le 34 inglesi più la Shell con gli olandesi, le 40 presenze di un Paese simile a noi come la Francia. Riprende la bella analisi di Gallino sul fatto che non abbiamo più un'industria informatica, elettronica, chimica, alimentare.

Tra le prime 50 aziende del mondo solo 3 sono italiane: Generali ed Eni nel campo dei servizi e solo la Fiat nell'industria, anche se solo al nono posto e con tutti i noti problemi. Turani concorda con Mucchetti nel constatare un dato oggettivo: i grandi imprenditori italiani hanno abbandonato l'industria per rifugiarsi nei servizi, in quelli poco o nulla esposti alla competizione internazionale come ha fatto la Pirelli entrando in Telecom Italia o Benetton nelle Autostrade.

Meglio le bollette sicure ed i pedaggi che l'innovazione, la ricerca, meglio investire in speculazione finanziaria che in posti di lavoro. Sono i posti di lavoro a rimetterci: emblematica è l'immagine scelta da Turani, cioè, quella dell'assemblea degli industriali veneti, che si tiene a Timisoara in Romania dove hanno trasferito gran parte delle loro produzioni per sfruttare il più basso costo della manodopera.

Le radici di questa situazione Turani le rintraccia nel passato: dopo il grande miracolo economico, realizzato nonostante(o forse anche grazie)le culture egemoni nel Paese, quella marxista e cattolica, fossero poco benevole nei confronti del capitalismo gli imprenditori non hanno saputo essere classe dirigente, si sono stretti in un incesto malato con la politica, hanno scambiato tangenti e soldi con il protezionismo, con altri soldi pubblici, e questo fin dalla nazionalizzazione dell'energia elettrica che ha, di fatto, indebolito la Borsa italiana e lasciato troppi soldi facili, subito sprecati,in mano a poche grandi famiglie.

Come uscirne? Turani anche nell'indicazione delle terapie è radicale: "Non avere paura di fare spazio agli stranieri, senza difendere il "sistema Italia" aldilà del ragionevole, anche nel caso delle banche."

Potremmo pensare in questo caso al mancato accordo Deutsche Telecom/Telecom Italia che ha lasciato Telecom piena di debiti o alla liquidazione dell'Alfa Romeo pur di non cederla alla Ford. Ma ancora più condivisibile è l'altra indicazione: "Bisogna prendere quel poco di soldi che lo stato, le banche e le imprese possono mettere in campo e indirizzarli verso la ricerca. Anche qui non c'è niente da inventare. Gli altri paesi sono pienidi storie, di successo, in questa materia. Basta copiare."

Basta pensare, ci dice Turani, che l'Italia laurea meno di 4.000 ricercatori all'anno(e nello stesso tempo ne fuggono all'estero circa 2.000) contro gli oltre 20.000 della Germania. Senza contare che, secondo Mediobanca, le nostre multinazionali hanno la più bassa spesa in ricerca in assoluto: 2,4% del loro fatturato.

Secondo Enrico Bellone, docente di Storia della Scienza e direttore del mensile Le Scienze, in Italia mancherebbero circa tre milioni di ricercatori e specialisti. Quello che manca, dice l'economista Gianmaria Gros-Pietro, in una bella intervista a Turani all'interno del libro (le interviste sono senza dubbio le cose in cui Turani riesce meglio e non è un genere facile) è la ricerca di base: "Il Premio Nobel italiano Riccardo Giacconi (che ha vinto per i suoi studi in campo astrofico) ha raccontato che, per svolgere la sua ricerca, ha dovuto inventarsi tutto, comprese le macchine per guardare il cielo. Alcuni suoi collaboratori poi hanno ripreso queste macchine ed oggi con queste si ispezionano i bagagli in tutti gli aeroprti del mondo. Ma si potrebbero fare moltissimi altri esempi."

Scheda
Titolo:Perché abbiamo il peggior capitalismo del mondo
Sottotitolo: Dal "miracolo" degli anni '50 e '60 alla vicenda Parmalat
Autore: Giuseppe Turani
Editore: Sperling & Kupfer
Prezzo: 13,50 Euro

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Pier Luigi Tolardo

Commenti all'articolo (4)

giuseppe
I giornali vanno però letti...... Leggi tutto
10-3-2004 15:39

Non e' un'analisi ragionevole Leggi tutto
10-3-2004 13:26

Michele Lenoci
Ancora il solito giornalista ignorante Leggi tutto
6-3-2004 10:59

Fabrizio
Triste ma vero Leggi tutto
4-3-2004 15:25

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