Si possono esportare nell'economia materiale i principi che sorreggono il software libero? In altre parole, è possibile hackerare l'economia reale, in modo che ci sia pane e tecnologia per tutti?
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 23-05-2006]
Parte prima: l'hacker, nè programmatore, nè genio, nè criminale
Secondo l'attuale definizione di Wikipedia, un hacker è una "persona che si impegna nell'affrontare sfide intellettuali per aggirare o superare creativamente le limitazioni che gli vengono imposte, non limitatamente ai suoi ambiti d'interesse, ma in tutti gli aspetti della sua vita".
Prendendo a prestito la retorica del nostro ex-presidente del consiglio, possiamo caratterizzare l'hacker con le tre C: curiosità, competenza, condivisione. L'hacker nasce come curioso, i bambini, a loro modo, lo sono tutti. Date loro un giocattolo e un cacciavite, e vedrete cosa succede. La smania di conoscere come funzionano le macchine è la base dell'hacking.
Notate l'assoluta assenza di queste tre parole: computer, genio, illegalità. Il computer è elemento certamente importante, per la cultura hacker, visto che l'ha in qualche maniera generata, ma non essenziale. Neppure è necessario essere geni: basta maturare una competenza atipica delle nostre macchine e di che cosa esse possano fare per noi.
L'illegalità, dovuta per lo più a uno svarione lessicale, è un'altra mistificazione. Certo, all'hacker non piacciono le regole, soprattutto quelle non scritte, le consuetudini, l'automaticità. Ma, paradossalmente, il software libero, uno dei traguardi più prestigiosi del movimento, nasce da un perfetto, assoluto e quasi maniacale rispetto per la legge.
Il copyleft è l'arma con cui l'hacker blinda il proprio lavoro, rendendolo immune dall'appropriazione da parte dei caimani della proprietà intellettuale. L'aspetto entusiasmante è che lo fa utilizzando le stesse leggi e norme coattive usate dai suoi avversari. Chi osa infrangere il copyleft, infrange il copyright, e tutto il castello di avvocati e carte bollate che lo sorregge.
Al di fuori del campo informatico, esistono molte comunità hacker, dai meccanici auto specializzati in riparazione e riprogrammazione di centraline elettroniche, a particolari gruppi come i radioamatori, i motociclisti, gli aeromodellisti, gli appassionati dei trenini elettrici, da cui pare derivi il nome hacker.
Ci sono anche esempi di contadini hacker, che si riuniscono attorno a Civiltà Contadina, ma anche gli eco-hacker, una comunità, di tipo tendenzialmente anarchico, che ha sviluppato una tecnologia di produzione di bio-gasolio fatto in casa. Non ci riferiamo a quei babbei che incitano a mettere l'olio di colza nei motori diesel common rail: questi producono ottimo gasolio da autotrazione, lavorando su oli di frittura usati o simili.
Da queste pagine è nata anche la definizione di hackumer, il consumatore hacker, un tentativo di diffondere un approccio critico, e sanamente distruttivo, all'atto dell'acquisto, che sta diventando per noi sempre più automatico e spersonalizzato. Grazie a questa forzatura, è possibile annoverare nella comunità hacker anche i Gruppi di Acquisto Solidale, i bilancisti di giustizia, e in genere tutti quelli che si ribellano alle morbide e traditrici maglie del marketing, come i meetup di Beppe Grillo.
Come l'hacker potrà rivoluzionare l'economia? Il nostro sistema, ha già sperimentato degli attori hacker? Con che grado di distruttività hanno agito? Cerchiamo di rispondere nelle parti successive.
Leggi la seconda parte dell'articolo: l'hacker e la banalizzazione
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