Lo sostengono alcuni documenti interni rivelati durante una class action.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 20-01-2019]
Che Facebook non sia un ente di beneficenza ma un'azienda e che, come tale, al di là dei proclami punta a generare profitti non dovrebbe essere un mistero per nessuno.
Alcuni documenti che - stando a quanto riporta Reveal - saranno presto resi completamente pubblici e che riguardano una class action in corso dal 2012 rivelano però che a ciò bisogna aggiungere un comportamento, da parte dei dipendenti e dei dirigenti, del tutto privo di scrupoli.
Sotto accusa sono i giochi utilizzabili tramite il social network, che spesso consentono di iniziare a giocare gratuitamente ma poi permettono di fare acquisti dall'interno del videogame stesso, e sono una sorta di calamita per bambini e minorenni.
La presenza di bambini sotto i 13 anni su Facebook è un altro elemento che non dovrebbe sorprendere: sono molti quelli che mentono sull'età per potervi accedere, spesso con il beneplacito dei genitori.
Ebbene, bambini e minorenni in generale iniziano a giocare, e per pagare usano la carta di credito di mamma e papà. Il problema è che le richieste di pagamento sono spesso scritte in maniera da essere volutamente confuse: a prima vista non si capisce che il pagamento non avverrà una volta soltanto, ma sarà ripetuto nel tempo.
Se già un adulto può essere sviato da questa formulazione imprecisa, figuriamoci che cosa possa accadere a un bambino che non vuole perdere tempo con i dettagli tecnici ma procedere nel gioco: in breve tempo, gli addebiti sulla carta di credito raggiungono cifre molto elevate.
I documenti mostrano come all'interno di Facebook questo fenomeno sia tutt'altro che sconosciuto: anzi, il social network appare del tutto intenzionato ad approfittare di questa «confusione diffusa», alimentata dal fatto che, in molti casi, i più giovani «credevano che gli acquisti venissero fatti con denaro virtuale, e che sulla carta di credito della madre non venissero fatti addebiti».
C'è addirittura un memo interno a Facebook, nel quale si può leggere: «In quasi tutti i casi i genitori sapevano che i figli stavano giocando a Angry Birds, ma non pensavano che il bambino potesse acquistare alcunché senza la loro password o la loro autorizzazione».
Dunque Facebook non solo sapeva e sa della poca chiarezza dei termini ma, quando i genitori chiedono un rimborso per gli acquisti fatti incautamente dai figli, si limita a negare la richiesta senza pensarci due volte (operazione peraltro particolarmente grave agli occhi di un americano, che vive nella "terra dei rimborso facile").
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I dipendenti del social network sanno tutto. E se la ridono
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