Cosa dovrebbe fare (e non fa) la politica. La Cina come occasione, non come minaccia.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 14-06-2006]
Leggi la quarta parte dell'articolo: economia ed ecologia degli hacker
Parte quinta: la politica e la Cina
Sarebbe un preciso dovere della classe dirigente rendersi conto del potenziale enorme costituito da una moltitudine di piccoli soggetti, agguerriti e compententi, rispetto alla logica della corporation: potente, inefficiente e soffocante (perché in grado di cambiare le leggi).
Il principale problema di aziende microscopiche è quello della ricerca: in genere una rete di microaziende non trova la capacità di investire cospicue risorse economiche in attività finanziariamente onerose, che porteranno benefici solo nel lungo periodo. E poi ci sono altre questioncelle tipo l'accesso al credito, che per i piccoli avviene in condizioni decisamente squilibrate in termini di potere contrattuale.
Uno stato hacker dovrebbe incentivare la formazione di una rete di microaziende, e il loro emendamento da grossi gruppi tecnologici e industriali, coprendo i punti deboli di questo sistema. Dovrebbe sostenere la ricerca, o intraprenderla esso stesso, rilasciando poi i risultati sotto forma di conoscenza condivisa. Dovrebbe favorire la creazione di consorzi, per l'accesso ai servizi. Dovrebbe promuovere una cultura che favorisca l'utilizzo di merci e tecnologie prodotte localmente, non per protezionismo nazionale, ma per ottimizzare le risorse e ridurre i trasporti.
Ma soprattutto l'aspetto più rilevante dell'intervento dovrebbe essere quello di una liberalizzazione molto spinta sulla tecnologia. Togliere le assurde e protezionistiche norme che riguardano costose omologazioni tecniche. Si dovrebbe cambiare la mentalità degli organi di controllo, sburocratizzarli. Introdurre norme basate su standard minimi di qualità e sull'autocertificazione.
Un esempio: l'impianto frenante di un'auto, invece che richiedere obbligatoriamente una tecnologia brevettata e proprietaria (l'ABS, una dimostrazione che le leggi le fanno le multinazionali), dovrebbe stabilire regole generali ma oggettive, del tipo a 50 km/h deve frenare in 10 metri, a 100 in 40 etc. Poi come si raggiunge questo risultato sono affari del produttore. Solo così sarebbe di nuovo possibile una teorica produzione semi-artigianale di autovetture.
Purtroppo, pare che questa visione illuminata sia prerogativa soltanto dei governi di arrembanti paesi sudamericani, tipo Brasile e Venezuela. Questi paesi, capostipiti della rivoluzione pacifica che sta avvenendo in Sud America, hanno messo la condivisione delle conoscenze al centro del loro piano per il rilancio economico, scientifico e tecnologico del continente.
I nostri attuali governanti sono invece legati al modello industriale tradizionale, tanto che nel discorso programmatico al Senato, per la fiducia, Prodi ha affermato che il secondo dei quattro punti del programma ecopnomico del governo sarà "la crescita dimensionale delle imprese, con interventi fiscali e normativi che favoriscono fusioni e acquisizioni e il consolidamento delle filiere che ora sono in crisi".
Da questo punto di vista, il governo ci vuole riportare indietro di vent'anni. Un grosso vantaggio rispetto a quello precedente, ma pur sempre un regresso rispetto alle nostre potenzialità.
L'ultima di querste riflessioni riguarda la Cina. Da un po' di tempo pare che la buona sorte della nostra economia dipenda dalla malasorte di quella cinese. L'invadenza di questo tipo di economia, aggressiva e senza regole, ha mandato in fibrillazione imprenditori ed economisti.
Tanto che, all'ex ministro Tremonti è venuta l'idea dei dazi. Credere di fermare la Cina con questo sistema è l'illusione del castoro che, con i legnetti, vuole fermare le cascate del Niagara. Ma il problema è un altro: a chi dovrebbero far paura i cinesi, in una situazione di decentramento produttivo già in atto?
L'economia attuale è prevalentemente in mano ad aziende che hanno esternalizzato tutte le le lavorazioni in paesi del terzo mondo. Nell'ipotesi peggiore di un'economia globalizzata cino-centrica, cosa cambierebbe, rispetto a ora? Il controllo passerebbe da aziende con capitale USA (e lavoratori cinesi), ad aziende con capitale cinese (e lavoratori parimenti cinesi).Come dire, una guerra, magari anche interessante, ma che ci vede solo come spettatori.
Meglio sarebbe, trattare con le aziende cinesi, la presenza sul nostro mercato. Loro sarebbero ben contenti di fornire, a micro-aziende italiane, beni da trasformare, da rifinire, invece che sforzarsi inutilmente di produrre pallide copie, a basso costo, dei prodotti delle multinazionali delocalizzate.
Potrebbero conquistare le agognate quote di mercato senza affannarsi nelle fasi finali del processo, in cui ora sono più indietro: la finitura e la personalizzazione. Noi potremo adeguare (una volta si diceva riconvertire) le piccole e piccolissime aziende, per svolgere queste fasi, ad alto valore aggiunto.
Il governo potrebbe favorire la fornitura di semilavorati a micro-imprese, e ovviamente di diffondere know how e tecnologia, in puro stile hacker. Si potrebbe estendere la trattativa a livello politico, su argomenti come i diritti umani, raggiungendo anche finalità etiche nel rapporto con questo colosso economico.
Un colosso che, risolti i problemi sociali, invece di mangiarci, potrebbe diventare il nostro maggior alleato. L'alleato degli hacker.
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