Storie di ordinaria prepotenza

Un lettore ci racconta con ironia la sua esperienza in tema di tutela del copyright e protezione del software da copia: una disavventura che supera ampiamente i limiti dell'assurdo.



[ZEUS News - www.zeusnews.it - 12-07-2001]

Ci sono cose che noi info-appassionati facciamo fatica ad ammettere di non poter neanche immaginare. La storia che vi racconto è una di queste. Nel 1997, approfittando di una offerta speciale della Lexis - Progetti Editoriali -, acquistai, tra gli altri, un pacchetto software che consideravo (e considero tuttora) fondamentale per la mia professione e la mia attività di ricerca. Si tratta del programma D.B.T., un data base testuale per l'analisi computazionale dei testi, prodotto dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e giunto, allora, alla sua terza release.

C'è da precisare che la Lexis era soltanto incaricata di commercializzare il programma e di dare assistenza tecnica a coloro che avessero difficoltà nella sua installazione e/o configurazione che, come vi dirò più avanti, non sono operazioni strettamente "intuitive" ed "indolori".

Avevo già usato una versione del programma per Dos in occasione della mia tesi di laurea. Oltretutto il prezzo del singolo software era particolarmente vantaggioso, solo poche decine di migliaia lire per una installazione. D'accordo, lo avevo acquistato assieme ad un altro pacchetto e, proprio per questo, mi era stato praticato uno sconto notevolissimo, ma si trattava per me di una sorta di software di sopravvivenza, come ho già detto, o mangi questa minestra o salti dalla finestra. Visto che la minestra non era poi male e che si rischiano fratture notevoli a saltare dalla finestra ho accettato l'offerta.

Procedo all'installazione inserendo nella maschera apposita il codice utente fornitomi insieme al software, ma con un certo disappunto, noto che la macchina mi genera un secondo codice che, stando al manuale che accompagna il pacchetto, devo comunicare alla Lexis per telefono o via e-mail, in modo da poter ottenere un terzo codice che, una volta inserito, chiude la procedura di blocco del programma e permette all'utente di poter finalmente accedere. Quindi, ricapitolando, abbiamo tre codici. Il primo, fornito all'utente all'atto della vendita, il secondo generato dalla macchina al momento dell'installazione (e, con ogni probabilità, diverso da macchina a macchina a seconda delle caratteristiche tecniche del computer ospite) e il terzo fornito dalla Lexis.

Una volta letto bene il manuale (che, bisogna dirlo, era incluso all'interno della confezione sigillata, mentre sull'involucro esterno non c'era nessun cenno ai passi da fare per l'installazione e la configurazione del programma) ho appreso che per disinstallare il programma avrei dovuto procedere con una speciale procedura da Windows (naturalmente inclusa) e comunicare alla Lexis un ulteriore codice (il quarto), questa volta di disinstallazione.

Ma non è finita qui. Sul manuale del software (che naturalmente ho dovuto dissigillare, altrimenti non avrei mai potuto leggerlo) era specificato che non era possibile reinstallare il programma D.B.T. su una macchina da cui fosse stato precedentemente disinstallato, a meno di non riformattare l'hard disk. Chiedo spiegazioni alla Lexis. "Sa, non possiamo farci niente, noi vogliamo essere certi che non esistano atti di pirateria sul software, capiamo le sue esigenze ma il pacchetto è questo, prendere o lasciare...". E naturalmente "prendo".

Le cose vanno bene finché non decido di affiancare a quella di Windows anche una partizione Linux e di installare il conosciutissimo Lilo per le necessarie istruzioni alla macchina circa il sistema operativo con cui desidero iniziare la mia sessione di lavoro. Nessun problema nell'installazione di Lilo, tutto funziona perfettamente sia sul versante Linux che su quello Windows ma... ecco che appena vado ad usare DBT, il maledetto mi chiede di nuovo il codice fornito dalla Lexis. Chiamo, spiego il problema, e dopo avermi fatto notare che comunque ci vuole il codice di disinstallazione (curioso che ci sia necessità di un codice di disinstallazione per un software che non è mai stato disinstallato), mi danno un codice nuovo, non senza prima avere sottolineato che Linux non dà nessun fastidio a DBT, e che, implicitamente, non credevano alla mia versione.

Naturalmente non ho nessun interesse a essere creduto, ma solo quello di continuare a lavorare in pace. Solo che, grazie al cielo, le distribuzioni di Linux sono tante e varie, e vale la pena provarle un po' tutte per vedere quale possa fare al caso nostro. Senza strafare, mi butto sul classico (SuSe, RedHat e Mandrake). Ovviamente, una volta installato un'altra volta il Lilo, si ripresenta, per il solo programma DBT della partizione Windows, lo stesso, annoso problema. Nuova telefonata alla Lexis e nuovo "gesto di favore". Della serie "Anche stavolta non hai il codice di disinstallazione ma noi ti aiutiamo lo stesso".

Arriviamo, di questo passo a tempi recentissimi, quando, dopo un crash della partizione Windows (sono cose che capitano) reinstallo il DBT e ho bisogno di nuovo del codice di sblocco. L'addetta al telefono della Lexis mi precisa che loro non sono più tenuti a fare questo tipo di assistenza e che il tutto è stato trasferito alla ditta Aracnoidea dove, però, mi fanno notare che la versione da loro commercializzata è la 4.0, mentre io sto chiedendo un codice per la versione 3.0.

Richiamo la Lexis dove parlo con un tecnico che mi nega il codice di sblocco perché "Lei ha usufruito più volte di un trattamento di favore, dato che non ci ha mai comunicato il codice di disinstallazione e in ogni cso non siamo più noi ad occuparci di queste cose". A questo punto gli faccio notare che il software l'ho comprato regolarmente e che pretendo che funzioni, e che se ha dei dubbi sull'effettivo utilizzo della licenza singola, o che il programma venga utilizzato in modo fraudolento anche su altre macchine in mio possesso può sempre venire a controllare. Inoltre gli spiego che possono sussistere situazioni di emergenza in cui un utente può essere semplicemente costretto a riformattare e che, visto che l'utente agisce sulla sua proprietà, può anche formattare il suo hard disk 5 volte al giorno, se proprio ne ha voglia. Inoltre, sul manuale fornitomi assieme al software è specificato in modo chiaro chi è tenuto a dare questo tipo di assistenza. Vengo invitato a richiamare l'indomani, e trovo una signora gentile e comprensiva che mi risolve il problema in via di favore ("non spetta più a noi, ma La capisco"). Adesso devo solo pregare che il sistema non crashi di nuovo (e trattandosi di una partizione Windows la cosa è assai più probabile di quello che si crede) perché, a meno di comprare la versione 4.0, sembra che nessuno avrà più voglia di dare assistenza antipirateria a un software comprato regolarmente.

Sembra una fesseria finta. Invece è una fesseria vera.

Valerio Di Stefano

Non è una fesseria, ma una prassi, sfortunatamente del tutto lecita, che va a fare buona compagnia alle chiavi hardware di protezione e a tutta quella serie di trovate più o meno geniali architettate dai Signori del Software per evitare che i loro prodotti vengano duplicati. Ma siccome proprio costoro seguitano a inscenare tragedie per le ingenti perdite loro causate dalla pirateria, si fa largo l'idea che, alla fine, protezioni, codici e astrusità varie ottengano il solo risultato di creare difficoltà all'utilizzatore onesto, ma non riescano affatto a fermare il "pirata".

La macchinosità del sistema descritto dal lettore e i gravosi vincoli a cui egli è sottoposto, dei quali, a suo dire, non è stato adeguatamente informato al momento dell'acquisto, possono forse essere considerati clausole vessatorie; tuttavia ciò costituirebbe, al più, titolo per la risoluzione del contratto. Ma la specifica necessità di utilizzare quel programma rende impraticabile l'alternativa, e l'unica soluzione possibile ammessa dalla legge rimane chinare il capo e subire. Anche perché, se il programma in questione genera archivi in formato proprietario, il decodificarne la struttura per esportare i dati verso un altro software potrebbe essere assimilato al reverse engineering e, pertanto, considerato comportamento illecito.

L'esiguità del prezzo corrisposto per l'acquisto non deve far apparire insignificante l'episodio: sistemi di protezione analoghi sono applicati a programmi ben più costosi; inoltre, se per proteggere un software venduto a basso prezzo si ricorre a tali metodi, si può immaginare che per programmi "di fascia alta" potrebbero essere impiegati sistemi ancora più invasivi.

Ecco perché lo sfogo del lettore, "Venite pure a controllare", è comprensibile ma pericoloso; i Signori del Software aspettano solo questo: che la legge consenta loro di venire a ficcare il naso in casa nostra e, soprattutto, nei nostri computers.

Va da sè che se fossero in campo l'open source e la licenza GPL gli orizzonti sarebbero ben altri; ma qui, cari amici, abbiamo parlato di software proprietario e di tutela dello sfruttamento economico del copyright. All'italiana.

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