La terza via tra le partecipazioni statali e un capitalismo straccione e inconcludente.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 17-09-2006]
In questo momento il centrodestra attacca Prodi a tutto spiano, cercando di recuperare il terreno perduto rispetto ai successi di politica estera. Fa benone, è il suo mestiere: il Paese ha già poco, guai se non avesse nemmeno l'opposizione.
L'accusa è lo scivolone di Rovati: Prodi vuole rifare l'Iri, che ha presieduto fino al 1994 e in cui, merito suo massimo di quella seconda presidenza, ha sanato la situazione unica in Europa del cosidetto "spezzatino telefonico": la Rete telefonica era divisa in più aziende, con doppioni, sprechi, ritardi grossissimi a danni del Paese e degli utenti.
La rete urbana e interurbana erano in mano a Sip, le centrali che collegavano i grossi centri e l'Europa erano gestite dallo Stato, il resto del mondo all'Italcable, i satelliti a Telespazio, i collegamenti radiomarittimi a un'altra società, la rete Itapac alle Poste; non si sapeva mai dove iniziava un guasto e dove finiva, e la Francia ci aveva largamente battutto con il suo Minitel.
Oggi è un po' difficile accusare Prodi di voler ripubblicizzare ciò che aveva privatizzato, anche se il premier è cosciente che la Rete da allora, dal '98, non ha fatto molti progessi: pochissima manutenzione, poca o niente fibra ottica, solo Adsl e non in tutta Italia, con grossi problemi di digital divide: più una Rete-rendita per Tronchetti che un'infrastruttura per il Paese.
Prodi si pone il problema di come uscirne: almeno è positivo, al di là della validità delle soluzioni; in cinque anni Berlusconi ha fatto poco e niente su Tronchetti Provera, certo non si è intromesso. Ma i risultati sono stati pessimi, come è sotto gli occhi di tutti.
Secondo la versione del centrodestra, il termine stesso "Iri" è quasi tabù: eppure senza partecipazioni statali il nostro Paese non avrebbe nulla. L'Iri negli ultimi anni era diventato un'immensa mucca da mungere per i politici e i loro portaborse, la stessa Asst e la Sip (la più grande fabbrica di tangenti del mondo, è vero).
Eppure senza Enrico Mattei non avremmo l'Eni, l'unica società italiana degna di figurare tra le più grandi del mondo; senza Reiss Romoli non avremmo avuto la teleselezione a livello nazionale già nel 1971; senza Bernabei, che assunse Eco e Vattimo, non avremmo avuto la Rai, che ha insegnato l'italiano agli italiani.
Le partecipazioni statali nacquero negli anni Venti dal disastro di Wall Street, cioè di un capitalismo solo finanziario e speculativo che crollava rovinosamente anche in un Paese già allora scarsamente industrializzato come l'Italia; erano l'unica possibilità di dotare il Paese di infrastrutture moderne in cui i privati non volevano mettere soldi: per Valletta, il gande capo della Fiat, il telefono era solo un oggetto per ricchi.
Le partecipazioni statali, finché un referendum ne ha perfino abolito il Ministero, non sono state solo malaffare: questo un imprenditore privato come Berlusconi, che deve tanto al suo talento ma anche tanto a Craxi e sè stesso come politico, non può negarlo.
Dall'altra parte c'è un capitalismo privato "straccione" senza capitali, orientato a fare i danè subito, al mordi e fuggi, senza prospettiva strategica, chic nella versione Tronchetti o cafone nella versione Ricucci, ma senza grandissime differenze, teso a scaricare sempre e comunquesullo Stato i costi sociali, ambientali e occupazionali dei propri fallimenti.
C'è chi rimpiange l'Iri dei tempi migliori, come Rifondazione comunista, (ma quello non può tornare) e chi, come Forza Italia, fa credere agli italiani che il mercato libero e bello, inesistente in realtà, sia portatore automaticamente di ricchezza e lavoro, e non solo di debiti e contratti precari. Un'alternativa, una terza via ancora non si intravede: è questo il dramma della vicenda italiana che il caso Telecom Italia fa emergere drammaticamente.
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