L'articolo 18 e la new economy

Il referendum che si terrà a giugno ripropone il tema del lavoro nella new economy.



[ZEUS News - www.zeusnews.it - 15-05-2003]

Il 15 giugno 2003 gli italiani saranno chiamati ad esprimersi tramite un referendum abrogativo in merito a una parte dell'art. 18 della legge 300 conosciuta da tutti come "Statuto dei Lavoratori".

Moltissimi ancora non sanno né che si andrà a votare, né l'oggetto del referendum, anzi dei 2 referendum, perché ci sarà una scheda anche per abrogare la legge che permette gli espropri per la posa di elettrodotti, in questo caso per ridurre e limitare l'inquinamento elettromagnetico.

Il referendum è stato proposto da forze politiche e sindacali che hanno raccolto lo scorso anno le firme: si tratta di Rifondazione Comunista e dei Verdi, delle organizzazioni sindacali autonome Cobas, Flmu, RdB.

Che cosa vogliono i proponenti del referendum? Vogliono abolire il limite previsto dall'art.18 che stabilisce che solo nelle aziende superiori ai 15 dipendenti, in caso di licenziamento senza giusta causa, il giudice obblighi l'azienda al reintegro cioè alla riassunzione del lavoratore licenziato.

Oggi, nelle aziende sotto i 15 dipendenti (la maggioranza nel nostro Paese, circa due milioni e mezzo) in caso di licenziamento senza giusta causa, il giudice non può ordinare la riassunzione del lavoratore ma solo un indennizzo economico che può arrivare a 9 mensilità (più quelle non corrisposte durante il periodo di ingiusto licenziamento).

Questo è stato stabilito dal Parlamento nel '79, da una larga maggioranza che comprendeva la sinistra, la quale ha modificato lo stesso art.18 (che allora non prevedeva nemmeno l'indennizzo), per evitare un referendum proposto da Democrazia Proletaria sullo stesso articolo e per lo stesso motivo dell'attuale.

Allora i sindacati, all'unanimità, e gli imprenditori sostennero questa modifica non vedendo di buon occhio un eventuale celebrazione del referendum. Che cosa si intende per licenziamento senza giusta causa?

Si intende, innanzitutto,un licenziamento individuale, perché i licenziamenti collettivi per fallimento, riduzione degli organici per motivi di mercato, finanziari, organizzativi, per allocazione degli stabilimenti all'estero o per automazione, quelli non c'è legge che li proibisca: ci sono solo procedure per ammortizzare i costi sociali come la cassa integrazione, la mobilità, l'assegno di disoccupazione.

Per licenziamenti senza giusta causa non si intendono, nemmeno, i licenziamenti per palese discriminazione politica, sindacale, di genere sessuale, religiosa, razziale, per maternità o per svolgimento del servizio militare/civile: in questi casi, a prescindere dalle dimensioni dell'azienda, il licenziamento è sempre illegittimo e non valido.

Per licenziamento senza giusta causa si intende un licenziamento adottato senza che ricorressero i motivi previsti dai contratti e dalle norme interne aziendali che prevedono il licenziamento per motivi gravi o come sanzione ultima per chi è recidivo e ha ricevuto, via via, provvedimenti disciplinari sempre più pesanti per indisciplina, scarso rendimento, non più sussistenza di un rapporto di fiducia. In questo caso se il giudice del lavoro ritiene che i motivi non ci fossero ordina nelle aziende superiori ai 15 dipendenti il reintegro, sotto i 15 un indennizzo.

Il motivo per cui negli anni '70 si è prevista una diversa tutela, deriva dalle diverse dimensioni: il legislatore ha ritenuto che in una grande azienda un conflitto in cui si è arrivati al licenziamento non debba portare all'esclusione per sempre del lavoratore dalla struttura aziendale, perché il lavoratore potrebbe essere trasferito in una sede/reparto diverso, ecc. mentre in una piccola impresa dovrebbe tornare a lavorare con lo stesso datore di lavoro, magari fianco a fianco, dopo il trauma del licenziamento.

Qualcuno dice che questo non è sempre vero nella stessa grande azienda e altri sostengono che non è un motivo valido per limitare l'universalità dei diritti e stabilire diversi diritti a seconda delle dimensioni dell'impresa.

Il Professor Piero Ichino, uno dei maggiori giuristi del lavoro del nostro Paese, che ha particolarmente studiato il rapporto tra nuove tecnologie (ad esempio il telelavoro) e i diritti dei lavoratori, ed è stato anche parlamentare di sinistra, aveva proposto un "lodo", cioè una modifica che non prevedesse più l'obbligo della riassunzione, nemmeno nelle grandi imprese, ma lasciasse, come avviene in Germania, alla decisione del giudice se stabilire la riassunzione o un indennizzo economico, secondo le circostanze e in tutte le imprese, qualunque fosse il numero dei dipendenti.

Questo tipo di soluzione viene giudicata da molti, a destra e a sinistra, come positiva ma non c'è stata, in realtà, la volontà politica di renderla legge ed evitare così il referendum.

Bisogna anche ricordare che, nel 2001, sono stati solo 2.000 circa le cause di lavoro contro licenziamenti senza giusta causa: in molti casi il giudice si è espresso contro la riassunzione ma, in circa, 1.000 si è arrivati ad un accordo economico tra le parti, anche se poteva esserci una buona possibilità di riassunzione.

Si tratta quindi di un fenomeno limitato, e, infatti, quando il Governo, con il consenso e la pressione della Confindustria, è andato allo scontro con i Sindacati su questo argomento, molti imprenditori hanno criticato il Governo perchè rompeva la pace sociale su un tema poi non importante né strategicamente né concretamente.

Infatti la raccolta di firme per il referendum nasce nel clima emotivamente caldo degli scioperi contro la proposta del Governo Berlusconi di "congelare" l'obbligo di riassunzione in alcuni casi: il Governo voleva sospendere questo obbligo per le aziende che superano i 15 dipendenti ma escono dal "nero", cioè abbandonano l'abusività totale o parziale, per quelle del Sud, per quelle che superavano i 15 dipendenti per almeno due anni.

Dopo diversi scioperi generali e una forte tensione il Governo stringeva un accordo con Cisl e Uil, senza la firma della Cgil che proclamava un nuovo sciopero contro, per sospendere, per due anni, a titolo sperimentale, solo per quelle aziende che superano i 15 dipendenti, l'obbligo di riassunzione.

La stessa Cgil in un momento del conflitto del Governo aveva lanciato una proposta di legge di iniziativa popolare in cui si abbassava il tetto per l'obbligo di riassunzione da 15 a 7 dipendenti, anche se non lo si eliminava, come si farebbe se passasse il referendum.

Ora il referendum si dovrà tenere e, nel Paese, ci sono almeno 3 posizioni: quella dei promotori del Referendum che hanno raccolto altre adesioni tra cui quella stessa della Cgil e dell'Arci, quella di chi è contrario come la Confindustria e tutte le organizzazioni dei piccoli imprenditori, anche quelle dei commercianti e degli artigiani più vicine alla sinistra, anche alcuni esponenti dei Ds, la Margherita, Cisl e Uil.

C'è poi la posizione di chi (gli ex segretari generali della Cgil Bruno Trentin, della Cisl Pierre Carniti e della Uil Giorgio Benvenuto) vuole far fallire il Referendum invitando all'astensionismo.

In altre parole non vogliono votare No come farà la destra, non credono negli effetti positivi del referendum, vogliono approfittare della possibilità che la Costituzione stessa dà a chi non vuole partecipare al referendum, che è valido solo quando vi partecipa il 51% degli aventi diritto per evitare che una minoranza abolisca o confermi una legge approvata dalla maggioranza del Parlamento, (espressione della maggioranza popolare) ed infatti tutti gli ultimi referendum sono falliti per mancanza del quorum.

Nelle speranze dei promotori del referendum c'è quella di arrestare un processo di sempre maggiore precarizzazione dei rapporti di lavoro mentre chi è contrario sostiene che questo costringerà le piccole imprese a fare solo assunzioni a tempo determinato, contratti di collaborazione, usare lavoro interinale e così non avere più problemi di licenziamenti, e c'è del vero in tutte e due le posizioni.

Perché il problema del lavoro nella new economy è proprio questo: assunto il fatto che il lavoro non può più essere quello fisso (=tutta una vita nella stessa impresa), è possibile che oggi non ci siano più certezze nel lavoro che siano in grado di permettere ad un giovane di lasciare la casa dei genitori, formarsi una famiglia, comprare o affittare una casa, con un reddito almeno decente?

Il lavoro della new economy è prevalentemente in piccole imprese e, comunque, ha sempre le caratteristiche di un lavoro parasubordinato, parziale, spesso temporaneo, con lunghi periodi di pre-lavoro come stage e altro, molto spesso interinale o, addirittura, con la formula dello staff leasing (cioè un'intera lavorazione data fuori) sia nelle posizioni di più elevata professionalità come i softwaristi e i professionisti del Web che nelle basse come gli operatori dei Call Center.

Le lamentazioni sul paese a crescita zero, sulla stagnazione dei consumi, sulla mancanza di progettualità delle nuove generazioni come si conciliano con un'economia che disegna un lavoro assolutamente flessibile in funzione delle esigenze delle imprese?

Mentre si invoca sempre maggiore flessibilità da parte delle imprese, che con l'ultimo decreto sul lavoro ne hanno ottenuta ancora di più, non ci si pone il problema, da parte del Governo di prevedere tutele per aggiornare la formazione professionale di questi lavoratori "flessibili" e tutele in campo previdenziale e sanitario, dove vige, piuttosto, la logica dei tagli.

Si potrebbe accettare una maggiore flessibilità se si fosse aiutati ad investire nella propria formazione, se si avessero certezze sulla pensione futura, in caso di malattia, con i figli o i genitori anziani di cui prendersi cura, se ci fossero asili, scuole, assistenza domiciliare ma su questo cade sempre più la scure delle ristrettezze dei bilanci.

Questi problemi richiederebbero una rappresentanza sindacale forte ed unitaria che, discutendo pure al proprio interno, sapesse dare una sintesi alle esigenze dei nuovi lavoratori ma, in questo momento, prevale solo la concorrenza tra i sindacati, quasi fossero imprese che devono accaparrarsi quote di mercato una a scapito dell'altra,e l'assenza, causa frantumazione e litigiosità continua, di un vero soggetto sindacale unitario ed autorevole, il vero irrisolvibile problema dei lavoratori italiani.

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Pier Luigi Tolardo

Commenti all'articolo (4)

Erik Boni
obiettività Leggi tutto
20-5-2003 15:19

Pier Luigi Tolardo
Grazie e.... Leggi tutto
19-5-2003 23:41

Marco
poche idee ma confuse Leggi tutto
19-5-2003 22:53

::XavierX::
Referendum rebus? Leggi tutto
15-5-2003 18:25

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