I top manager dell'ICT esprimono preoccupazione per la crescente carenza di competenze nel mondo dei servizi informativi. Ma qual è il punto?
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 04-06-2010]
Durante la giornata di presentazione dei dati del rapporto del Rapporto ICT 2010, condotta da Assinform, vi è stato un susseguirsi di interventi di autorevoli top manager di altrettante autorevoli aziende che hanno portato alla luce un contesto di insoddisfazione complessiva per ciò che riguarda i servizi informatici nel nostro Paese.
Si coglie - afferma Massimo Messina, co-responsabile IT del Gruppo bancario BNL-Paribas - una profonda delusione di come l'offerta si propone ai clienti con scarsa competenza, poche idee brillanti e poca qualità.
Carlo Privitera, capo IT e tecnologie Luxottica, suggerisce che vorrebbe non più una generica IT per l'industria ma qualcosa definibile come Business Technology: tecnologia che genera fatturato.
"E solo noi che siamo dietro a queste cose" - continua Musumeci - "sappiamo quanto sforzo richieda il lavoro dietro le quinte per fare che le cose appaiano semplici sulla scena dello spettacolo. È indubbio però il calo delle competenze scientifiche e delle competenze tecnologiche in generale. E sovente siamo costretti a rivolgerci all'estero perché le aziende italiane quelle competenze le hanno perse, non le hanno più".
Giusto, giustissimo, ma... Ci siamo ormai abituati a sentir dire che la scuola non riesce a stare al passo con i tempi. Sempre più spesso chi, completato un percorso formativo più o meno lungo, si affaccia nel mondo del lavoro non è adeguato a svolgere le mansioni richieste, anche quelle più basilari.
Quest'ultima affermazione, non considerando l'eventuale eccezione che conferma la regola, è assolutamente vera. Tuttavia la domanda da porsi a questo punto è: che fare?
Da più parti si sollecita un rinnovamento della "istituzione" scuola; tuttavia sarebbe opportuno riflettere su due questioni rilevanti.
La prima è da individuarsi sulla opportunità di rivoluzionare (come magari sta già avvenendo), l'intero impianto formativo mettendo in discussione in più punti il sistema. Ma questo approccio, particolarmente delicato, è di fatto praticabile con una visione da statista e non da politico.
La seconda questione nasce da una domanda. Siamo sicuri che questa inefficienza sia davvero tale?
Prima di provare a rispondere a questa domanda, sarebbe opportuno dare uno sguardo al passato. Qual era il percorso che accompagnava un lavoratore in tutta la sua fase di startup?
In breve: si studiava (se ve ne era la possibilità) e si acquisivano delle nozioni; successivamente si entrava in azienda e lì iniziava la vera avventura con un periodo, per tutti duro, denominato "gavetta".
Questo periodo era di certo non produttivo nel contesto aziendale e oltretutto oneroso per l'azienda, che impegnava uomini e risorse per istruire e formare ogni singolo individuo. Tuttavia era ben accetto o quantomeno era parte dovuta in una idea imprenditoriale collettiva.
Con questo sistema di certo non vi erano profitti nell'immediato, ma si creavano professionalità strutturate in contesti e in programmi aziendali di lungo termine che creavano eccellenza e consentivano il trapasso di competenze dalla vecchia alla nuova generazione.
Oggi questo processo (per ciò che mi riguarda, virtuoso) non esiste più o quantomeno è presente in sempre più rari casi. L'economia spicciola di cui le aziende sono pervase, non può permettersi questo meccanismo, in quanto sempre orientata al profitto a breve termine con società che nascono oggi per morire domani.
Di contrappasso viene meno la validità del sistema scolastico che men che meno può soccorrere un sistema così fondato. Si crea quindi uno scollamento di ruoli che porta come risultato la proliferazione del "tutti fan tutto".
Sempre più spesso si assiste a ingegneri che si occupano di economia, matematici che si occupano di informatica, economisti che si occupano di matematica, e l'elenco di certo potrebbe continuare.
Di fatto ciò accade per la inadeguatezza strutturale della nostra società nell'accogliere le nuove professionalità con gradualità e che sempre più valore assegna al contesto speculativo del "tutto e subito" e molto meno a quello produttivo.
Come spiegarsi di fatto che aziende quotate - di produzione di beni reali e concreti nonché di servizi - crollino da un giorno all'altro?
Ci viene detto: il titolo azionario è crollato in borsa per cui la società non vale più nulla. Ma scusate! Se io il giorno prima produco e commercializzo un prodotto o un servizio vero, reale, tangibile, il giorno dopo continuerò a farlo, il dipendente andrà al lavoro come sempre, ma allora sostanzialmente cosa è cambiato?
Se un fallimento accade, esso avviene nel tempo e di certo se ne vedono i segnali: calo di produzione, magari di qualità, esubero di produzione, ma sono processi che durano anni.
In conclusione, quindi, difficilmente si può imputare all'individuo una inutilità produttiva ma piuttosto occorre ammettere che le attuali aziende che fanno imprenditoria dovrebbero fare un passo indietro e forse ricostruire il valore della relazione tra il lavoro e l'imprenditoria di lungo termine alla ricerca comune della preparazione e della innovazione che ci caratterizzava in altri periodi.
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