SIAE: il diritto d'autore si paga anche sulle fotocopie

Un recente accordo siglato, tra gli altri, da SIAE e Confartigianato impone il pagamento di una gabella sulle fotocopie, anche se gratuite ed effettuate per uso personale. Ma qualcuno non ci sta.



[ZEUS News - www.zeusnews.it - 13-06-2001]

Dal primo gennaio 2001 è in vigore un accordo tra SIAE, AIE (Associazione Italiana Editori), SNS (Sindacato Nazionale Scrittori), Confartigianato e CASA (Confederazione Autonoma Sindacati Artigiani): esso, sulla scorta di quanto disposto dalla solita legge 18 agosto 2000, n. 248, sancisce, per i responsabili dei centri di riproduzione che mettono a disposizione del pubblico *anche gratuitamente* apparecchi per la produzione di fotocopie, o li utilizzano nel proprio ambito, l'obbligo di corrispondere (indovinate a chi?) un contributo per ogni pagina riprodotta, a titolo di compenso del diritto d'autore, fermo restando il divieto di fotocopiare più del 15% delle pagine dell'opera stampata.

Tocca al responsabile del punto di riproduzione pagare il tributo; è evidente che questi non può fare altro che ribaltarlo sul consumatore...

A prescindere dalle implicazioni burocratiche, non indifferenti (obbligo di compilazione di appositi moduli con codice ISBN, ovvero titolo dell'opera, nome dell'autore, numero di pagine riprodotte: insomma, fotocopiare una pagina diventa un affare di Stato), vale la pena di soffermarsi sull'entità del balzello: posto che secondo l'ISTAT il prezzo medio di una fotocopia è pari a circa 200 lire (dato 1988), la cifra da corrispondere è fissata, inizialmente, al 45% di detta somma, cioè 90 lire.

*Inizialmente*, perché a partire dal mese di agosto 2001 saranno applicati incrementi periodici che la porteranno, al primo gennaio 2005, a 150 lire (pari al 75%).

La notizia, che si commenta da sè, è spunto per qualche ulteriore riflessione. In primo luogo, è evidente l'assenza di un qualunque nesso tra diritto d'autore e prezzo delle fotocopie; in più, senza la necessità di indagare con precisione quanto percepisca il titolare del diritto di privativa per ogni copia di libro venduta, dall'ipotesi (ottimistica?) che gli vengano corrisposte anche soltanto 100 di quelle 150 lire, si trae l'idea che per gli autori sia preferibile, a questo punto, che i loro libri vengano fotocopiati, piuttosto che venduti. Sorge qualche dubbio sulla effettiva finalità del tributo...

Inoltre, dal momento che l'accordo fa esplicito riferimento a "centri o punti di riproduzione", ci si domanda: la fotocopiatrice presente in tutte le civiche biblioteche è da considerarsi tale? In altre parole, il bibliotecario deve riscuotere la gabella da chi gli richiede di fotocopiare alcune pagine di un libro di proprietà della biblioteca? In caso affermativo, ciò vale anche nel caso in cui il libro non sia ammesso al prestito, in quanto prezioso? E sono punti di riproduzione le fotocopiatrici presenti praticamente in tutti gli uffici? Cioè, chi fotocopia in ufficio parte di un'opera tutelata rischia di inguaiare il datore di lavoro? Questi si scagiona se riscuote il tributo? E se licenzia il dipendente?

E, più in generale, il tributo va riscosso anche se l'opera non è reperibile in vendita, ad esempio perché fuori catalogo? Anche nel caso in cui il diritto d'autore sul libro da fotocopiare sia ormai decaduto? E come si può provare al gestore del centro copie che il diritto d'autore è decaduto? E come può questi provare la propria buona fede se, al riguardo, viene ingannato dal cliente?

Eppure, questa è l'era della Rete e della telematica: un gran numero di pubblicazioni, documenti e manuali è direttamente prodotto e distribuito in formato elettronico; la produzione cartacea predomina, per adesso, nella narrativa, ma è quasi sempre possibile reperire edizioni economiche. Allora, quali sono le opere che fanno eccezione e vengono fotocopiate in misura massiccia? Probabilmente i libri di testo, soprattutto in ambito universitario.

Le ragioni sono molteplici: parecchi libri di testo sono molto costosi; inoltre, per preparare un esame, è spesso necessario studiare parti più o meno ampie di diversi testi. La riproduzione a mezzo fotocopia appare perciò una conseguenza naturale. Ovviamente, "naturale" non significa "lecita", ma anche in questo ambito si può dare spazio ad alcuni pensierini liberi. E' davvero indispensabile, per un docente, inserire nella materia d'esame parti estratte da più testi? Non si è mai accorto nessuno che tra i testi d'esame, per ogni corso, fanno quasi sempre (bella) mostra di sè uno o più titoli scritti dal docente titolare della cattedra? Questo, di per sè, potrebbe essere un ottimo rimedio al problema testè accennato; purtroppo accade talvolta che si tratti di testi scadenti, il cui contenuto, quando sono più d'uno, si sovrappone parzialmente, come fotocopiato (oh, bella!). E che dire dei casi in cui, a turno, ciascun docente di un istituto scrive un libro, e tutti i docenti di quell'istituto lo adottano come testo d'esame per i propri corsi? E degli aggiornamenti periodici ai testi, spesso di marginale importanza e comunque poco significativi ai fini della materia trattata, ma regolare oggetto di verifica in sede di esame?

Va sottolineato che le cose non stanno sempre così: numerosissimi docenti pubblicano ottimi testi e suggeriscono agli studenti bibliografie ragionate; quand'anche la situazione fosse davvero generalizzata, non si giustificherebbe comunque l'illecito. Tuttavia vale la pena di riflettere: in quest'ottica, il balzello sulle fotocopie diventa, di fatto, una tassa occulta sull'istruzione. E cominciano a farsi sentire le prime reazioni: il movimento Avanguardia Studentesca di Cagliari ha avviato, tramite il proprio sito una raccolta di firme via e-mail contro l'accordo di cui stiamo parlando. Al momento, le adesioni sono diverse centinaia: auguriamoci che sia solo l'inizio.

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