La scomparsa dell'Italia industriale

Il sociologo Luciano Gallino analizza il declino industriale del nostro Paese.



[ZEUS News - www.zeusnews.it - 10-06-2003]

Luciano Gallino è uno dei maggiori sociologi italiani, specializzati in sociologia del lavoro e dell'organizzazione aziendale, autore di un fondamentale "Dizionario di Sociologia", tradotto in moltissime lingue. La sua ultima fatica è un breve (100 paginette) ma documentato e incisivo, brillante e caustico, saggio sulla deindustrializzazione in corso del nostro Paese dal titolo eloquente: "La scomparsa dell'Italia industriale".

Luciano Gallino presenta con dati di fatto, oggettivi ed inconfutabili, la realtà del nostro Paese: l'Italia non possiede più una grande industria manifatturiera nell'informatica, nel settore aerospaziale, nella chimica, nell'elettronica di consumo e nell'automobile.

Nell'elenco della rivista americana "Fortune" dedicato alle prime 500 società del mondo, per grandezza di fatturato (si badi bene e non per capitalizzazione di borsa) c'è solo una azienda industriale italiana, ed è la Fiat, che si trova al 49° posto (tre anni prima stava al 33° posto).

Non vi è più un'industria chimica, dopo che la chimica italiana negli anni 60 è stata fra le prime del mondo (gli anni di Natta e Fauser). Al 145° posto c'è l'Olivetti (che è sparita in questi giorni come società a sé stante ed è fusa con Telecom Italia) che non figura come azienda industriale ma come la finanziaria di Telecom Italia. Nell'elenco figurano, invece, numerose imprese industriali di paesi molto più piccoli dell'Italia: Olanda, Svizzera, Svezia, Finlandia.

Altri dati significativi sono questi: consideriamo il numero di domande di brevetto per milione di abitanti nell'Unione europea dove l'Italia è al dodicesimo posto su quindici: 74 domande di brevetto per un milione di abitanti contro le 133 del Regno Unito, le 145 della Francia e le 309 della Germania o le 151 del Belgio, le 174 dell'Austria, le 242 dell'Olanda, le 211 della Danimarca e, infine, le 337 della Finlandia e le 366 della Svezia. A questo si aggiunge che solo il 10% delle domande di brevetto italiane presentate allo European Patent Office (Epo) nel 2002 riguardavano apparati o prodotti high-tech.

Luciano Gallino boccia anche le facili interpretazioni che vogliono spiegare la riduzione di peso ed importanza dell'industria italiana alla crescita della società del terziario avanzato e non: nell'elenco di Fortune tra le prime dieci corporation ben cinque sono manifatturiere e la realtà è che i servizi crescono e si sviluppano per l'industria e con l'industria.

Il "mito" del "piccolo è bello" rischia di mettere ai margini il Paese: le piccole e medie imprese non possono sostenere gli ingenti investimenti in ricerca e sviluppo senza i quali non c'è innovazione tecnologica, ci si riduce ad essere solo importatori di tecnologia ed "esportatori di cervelli", di ricercatori e lavoratori con alta professionalità.

Luciano Gallino si chiede con caustica ironia: "Non è stata impresa da poco, aver lasciato scomparire interi settori produttivi nei quali si eccelleva: né aver mancato le opportunità per riuscirvi in quelli dove esistevano le risorse tecnologiche e umane per farlo. Sembra lecito chiedersi come ci si è riusciti. questo saggio prova a delineare alcune risposte. Con l'auspicio di veder ricomparire una politica industriale, volta a favorire l'occupazione ad alta intensità di conoscenza e uno sviluppo più autonomo ed equilibrato di tutto il paese".

In questa dichiarazione, oltre a tracciare l'intento di ricostruzione storica del saggio, Gallino esplicita chiaramente la sua tesi: le tante grandi riforme strutturali che destra e sinistra invocano, e soprattutto gli industriali a gran voce reclamano, cioè la riforma fiscale, del mercato del lavoro e delle pensioni, non servono a risolvere i problemi della crisi industriale del nostro Paese che richiederebbe una politica industriale, che altri Paesi invece hanno fatto e fanno. Anzi, sostiene Gallino, immettere altra flessibilità nel mondo del lavoro non serve se non c'è sviluppo anzi è funzionale ad un modello di bassi salari, forte precarietà in settori industriali maturi se non obsoleti, sempre più spiazzati dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo mentre servirebbe più lavoro qualificato e ben retribuito in settori a forte valore aggiunto e contenuto professionale.

Già nel primo capitolo del libro viene ricostruita la storia della liquidazione dell'informatica italiana, dai giorni dell'eccellenza determinata dalla genialità di un imprenditore come Adriano Olivetti (di cui Gallino è stato un giovanissimo collaboratore, tra gli intellettuali chiamati ad "umanizzare" la fabbrica) al momento in cui gli industriali e i finanzieri che vennero dopo Olivetti non vollero più investire in ricerca ed innovazione, considerando l'informatica di Olivetti "un neo da estirpare" per usare le parole che Vittori Valletta, allora amministratore Fiat e nuovo azionista Olivetti.

Dall'"Elea 9003", primo calcolatore elettronico interamente progettato e costruito in Italia nel 1959, seguito dal 6001 fino all'antesignano del Pc, nato in Italia nel 1966, la P101, costruita in serie fino al successo internazionale dell'M 24 dell'Olivetti già debenedettiana del 1984. La storia dell'Olivetti è una storia di occasioni mancate, di successi incompiuti, di invenzioni brillanti ma mai sostenute da un impegno finanziario adeguato da parte della comunità imprenditoriale privata e dalla domanda pubblica come invece è avvenuto, per esempio, in Francia.

Nella vicenda dell'informatica, ma anche in quella dell'automobile, ha pesato di più l'ottusità, la mancanza di volontà di rischiare, l'egoismo del breve termine di azionisti e finanzieri privati mentre nel settore dell'elettronica di consumo, che oggi vede gli italiani grandi consumatori di telefonini e DVD progettati all'estero, ha pesato l'arretratezza della politica italiana che ha soffocato la promettente industria italiana dei televisori, facendo partire la Tv a colori con dieci anni di ritardo rispetto agli altri Paesi europei e non.

La bella e convincente analisi di Gallino coincide con molti passaggi della recente relazione del Governatore della Banca d'Italia Fazio: in Italia si investe troppo poco in ricerca e formazione, abbiamo troppo pochi laureati, i nostri lavoratori sono meno formati dei nostri concorrenti europei, di quelli che entreranno nell'Unione Europea dall'Est, e, perfino, dei Paesi extracomunitari. Questo perché le aziende italiane sono troppo piccole, non vogliono uscire dalla dimensione familiare (perché chi le controlla ha paura di non riuscire più a farlo), e così non hanno le risorse finanziarie per fare ricerca ed innovazione. Non è un caso che Governo ed industriali che, negli anni scorsi, avevano fatto a gara a lodare il governatore quando chiedeva il taglio delle pensioni o esprimeva apprezzamenti al Governo e critiche ai sindacati si siano risentiti per questi giudizi duri ma realistici o non li abbiano nemmeno raccolti.

Scheda
Titolo: La scomparsa dell'Italia industriale
Autore: Luciano Gallino
Editore: Einaudi
Prezzo: 7 Euro

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© RIPRODUZIONE RISERVATA

Pier Luigi Tolardo

Commenti all'articolo (4)

il caro leader
D'accordissimo; d'altra parte hai visto benissimo che le poche volte che si tenta di finanziare la R&S (vedi riforme universitarie con coinvolgimento delle imprese) si vedono barricate da '68 contro "i soldi ai padroni". Gli imprenditori operano in un clima ideologico per molti versi ancora ostile alla libera impresa, lo... Leggi tutto
13-6-2003 19:23

giuseppe
nulla di nuovo.... Leggi tutto
13-6-2003 10:15

Pier Luigi Tolardo
L'unica ricetta..... Leggi tutto
12-6-2003 00:11

il_caro_leader
Zeusnews o GGIL? Leggi tutto
11-6-2003 21:24

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