Il fenomeno che affligge il nostro Paese potrebbe essere contrastato con il modello del lavoro sulla "nuvola".
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 11-10-2010]
Nell'immaginario collettivo lo sviluppo economico e sociale avviene soprattutto al nord, mentre il mezzogiorno è percepito come sottosviluppato.
Da anni assistiamo ormai al consolidamento dell'idea secondo cui le aree di minor sviluppo sono sempre al sud. Oggi, ciò è anche diventato una questione politica soprattutto in Italia, patria di una unità che forse non è mai avvenuta completamente.
Qualche giorno fa, a seguito di un editoriale apparso su Repubblica a firma di Claudia Cucchiarato, abbiamo avuto modo di soffermarci su una questione cruciale per il nostro Paese: la fuga dei cervelli.
Chi decide di andare (o meglio emigrare) all'estero spesso è caratterizzato, secondo i numeri espressi dall'articolo, da un'età al di sotto dei 40 anni, da un titolo di studio medio-alto e da una forte necessità di realizzazione professionale.
Non ribadiremo in questa sede le ormai logore motivazioni per cui ciò avviene ma piuttosto ci interessa capire se vi siano delle condizioni reali per cui ciò debba avvenire.
Siamo certi che il modello estero di coltivazione dei talenti sia davvero vincente? E, inoltre, siamo sicuri che si sia costretti ad emigrare?
Spesso, troppo spesso, ci si rivolge all'estero per trovare la giusta strada in patria, certi che le soluzioni adottate oltre frontiera siano la strada maestra da seguire.
Questo modo di agire potrebbe essere plausibile qualora si avesse la certezza che il modello, una volta importato, in Italia funzioni.
Ci si dimentica, tuttavia, che tale modello è tanto più valido quanto più è capace di sposarsi con la realtà delle cose, con gli usi e i costumi del Paese in cui viene importato.
Ciò detto, vi è una ulteriore considerazione da fare.
Le storie di successo che gli italiani hanno all'estero sono solo una percentuale delle migliaia che invece non emergono e che, quindi, semplicemente ignoriamo.
Tutto ciò implica che, se vogliamo risolvere il problema, la considerazione madre da fare è: quale modello occorre creare affinché un laureato sia incentivato a restare?
Le risposte a questa domanda sono a oggi mille ma tutte scarsamente valide, tant'è che il problema permane e nessuno sembra essere in grado di arginarlo.
Impiegare la propria professione oggi è più che mai una questione di sfida al normale paradigma del lavoro, il quale fonda le proprie basi sul rapporto di fisicità e di presenza costante all'interno del gruppo lavorativo di cui si fa parte.
Il concetto di offerta della propria prestazione professionale, a differenza del lavoro manuale, è qualcosa che possiamo estendere e fornire al di là dei confini geografici, a patto di utilizzare la giusta tecnologia.
D'altra parte basterebbe incentivare la mobilità dei servizi anziché quella dei soggetti per avere un concreto miglioramento nella qualità del nostro vivere.
Il leitmotiv di questa rivoluzione di pensiero è individuabile in uno scardinamento della vecchia concezione di prestazione di lavoro con l'introduzione, in analogia a quello che sta avvenendo oggi attraverso il cloud computing, del cloud working.
Analogamente alla virtualizzazione delle risorse aziendali nella "nuvola" - che è un paradigma di ottimizzazione dei servizi, malgrado comporti alcuni aspetti non ancora ben definiti - il cloud working è auspicabile, se ben programmato, per tutte quelle categorie professionali in cui il prodotto del lavoro è individuabile nella capacità di produrre conoscenza; tale conoscenza può essere asservita a chiunque lo richieda attraverso i molteplici mezzi che la tecnologia mette in campo.
Non vi è, nei lavori cui si presta un'opera intellettuale, alcun motivo per cui la presenza fisica debba essere il cardine di un proficuo rapporto di lavoro; anzi l'inserimento di una professionalità così concepita sarebbe un risparmio per tutti.
Malgrado questo, la vecchia concezione incentrata sulla fisicità del rapporto è qualcosa che da un lato oggi ci viene imposto come modello ma dall'altro ha quale risultato la migrazione dei popoli, una realtà molto più complessa da gestire rispetto alla la condivisione delle idee.
Una visione del lavoro come cloud working, oggi possibile, dovrebbe poter essere incentivata attraverso alcuni punti ben precisi: una seria istruzione che riguardi argomenti come la conoscenza delle lingue e l'alfabetizzazione informatica, una reale politica di potenziamento della connettività sociale e l'introduzione di nuove forme contrattuali al passo con la globalizzazione.
Tutto ciò avrebbe come fine l'introduzione di una idea di ordinaria quotidianità del cloud working, con cui avremmo molto da guadagnare sia in termini di efficienza che di soddisfazione della propria condizione lavorativa; migliorerebbe anche la qualità della vita grazie alla scomparsa dell'obbligo di aggregazione nelle grandi aree metropolitane.
Alla fine forse non conterebbe più la latitudine alla quale si vive, bensì la professionalità che si potrebbe esprimere.
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