L'interprete era malato e l'udienza è stata posticipata a settembre. Il caso italiano ha assunto rilevanza internazionale: mai Google ha dovuto affrontare simili accuse.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 24-06-2009]
L'atto più recente del processo contro Google si è svolto ieri, 23 giugno 2009, ma è stato brevissimo: l'interprete che era stato chiamato per tradurre la testimonianza di un ingegnere arrivato direttamente da Mountain View non ha potuto essere presente per malattia, e tutto è stato rimandato al 29 settembre.
C'è stato solo il tempo, da parte degli avvocati difensori, di richiedere un processo a porte chiuse: il giudice Oscar Magi ha accolto la richiesta e così il pubblico e gli inviati della stampa sono stati allontanati.
Il processo, sebbene si svolga a Milano, ha interesse internazionale: erano presenti giornalisti del Wall Street Journal, di France Press e del New York Times.
Il tutto è iniziato quando su Google Video (il servizio di condivisione dei filmati creato da Google prima dell'acquisizione di YouTube e ora chiuso) è apparso un filmato in cui quattro studenti di un istituto tecnico torinese hanno pubblicato un filmato in cui insultavano un loro compagno autistico.
Il video è apparso in rete l'8 settembre del 2006; il 6 novembre un utente privato, unitamente al Ministero dell'Interno, ne ha chiesta la rimozione, cui Google ha provveduto nelle 24 ore successive.
La scomparsa del filmato non è sembrata sufficiente e il padre del ragazzo vittima dei compagni ha querelato Google, dando il via al processo; insieme a lui il Comune di Milano e l'associazione Vividown si sono costituiti parte civile.
È a questo punto che la vicenda si fa complicata. Da un lato, anche secondo una direttiva europea del 2003, i provider non sono responsabili dei contenuti immessi dagli utenti sulle loro reti, a patto che cancellino quelli offensivi qualora vengano segnalati, cosa che Google ha fatto tempestivamente.
Dall'altro si pone l'accusa, che ritiene invece direttamente responsabile la società fornitrice del servizio: secondo Google pensarla in questo modo "è come processare i postini per il contenuto delle lettere che portano".
Il bello è che con la guerra che è seguita all'avvio del processo e che sta continuando la vittima non ha più nulla a che fare: il padre del ragazzo ha ritirato la querela dopo essersi accorto di come la vicenda sia stata strumentalizzata per fini che esulano completamente dalla tutela del figlio.
È curioso come l'accanimento dell'accusa sia rivolto verso Google e non verso i diretti responsabili del video e delle violenze, ma lo è ancora di più constatare come qualcuno pensi di poter equiparare con leggerezza YouTube e la televisione.
Il paragone, fatto da più parti, non può reggere: chi chiede che Google "imponga sui contenuti lo stesso controllo che c'è in televisione" può avere come scusa solo l'ignoranza: oltre a essere tecnicamente impossibile vagliare le 28.800 ore di filmati che ogni giorno vengono caricati, è il mezzo che è diverso.
Su YouTube non c'è un direttore di rete che decide che cosa trasmettere, ma sono gli utenti stessi ad agire in autonomia, anche quando segnalano i contenuti da rimuovere.
Se Google venisse ritenuto responsabile - in barba, perlatro, alle indicazioni europee - le ricadute potrebbero essere preoccupanti: si rischia di dare un via libera sostanziale a una censura preventiva per evitare il rischio di finire in tribunale per qualunque sciocchezza.
È triste come il caso in oggetto, che invece è tutt'altro che una sciocchezza, miri a punire Google e non i veri responsabili dei maltrattamenti e, più ancora, evitare che vicende del genere si ripetano.
Certo, condannare un gigante è più semplice e fa più rumore che non educare gli adolescenti.
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Dangerotto