Troppi obblighi insensati stanno affossando la speranza di avere finalmente connessioni wireless libere anche nel nostro Paese.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 22-07-2013]
Quando il Governo presentò il cosiddetto Decreto del Fare, la parte relativa alla liberalizzazione del Wi-Fi fece gioire molti: sembrava che finalmente fosse terminato il tempo delle complicazioni burocratiche e che l'Italia potesse finalmente riuscire a offrire quel servizio semplice che altrove è considerato normale.
In seguito, però, nacquero le prime perplessità, alimentate anche dal Ministero dello Sviluppo Economico e sottolineate dal Garante della Privacy.
Ora, con la conversione in legge in corso, tali perplessità non stanno facendo altro che aumentare a causa delle imprecisioni che i legislatori stanno inserendo nel testo a colpi di emendamenti, problemi che paiono dettati dalla scarsa conoscenza della materia che vorrebbero regolamentare.
Il problema principale, rilevato anche dal deputato e noto informatico Stefano Quintarelli, è che il primo degli emendamenti proposti ribadisce «l'obbligo del gestore di garantire la tracciabilità del collegamento attraverso l'assegnazione temporanea di un indirizzo IP e il mantenimento di un registro informatico dell'associazione temporanea di tale indirizzo IP al MAC address del terminale utilizzato per l'accesso alla rete Internet».
Tale norma rasenta la mostruosità perché, come ha rilevato anche il Garante della Privacy, anziché far fare passi in avanti verso la liberalizzazione riporta indietro ai tempi del decreto Pisanu, o addirittura in una situazione ancora peggiore.
Infatti, non solo costringerebbe qualunque fornitore di Wi-Fi (a partire dai piccoli bar) a dotarsi di un server syslog per registrare l'associazione tra IP e MAC (pratica non eccessivamente costosa né complicata, ma antipatica e certamente poco in linea con il concetto di liberalizzazione), ma provocherebbe problemi sul fronte della privacy.
L'indirizzo MAC è infatti univoco per ogni dispositivo, e potrebbe quindi configurarsi come un dato personale poiché facilmente associabile all'identità del proprietario di detto dispositivo: sebbene quindi il comma 2 affermi il contrario («La registrazione della traccia delle sessioni, ove non associata all'identità dell'utilizzatore, non costituisce trattamento dei dati personali e non richiede adempimenti giuridici»), le questioni sulla riservatezza sorgerebbero immediatamente.
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C'è poi il fatto che un utente "smaliziato" è in grado di modificare l'indirizzo MAC del proprio dispositivo, vanificando così il motivo per cui la norma ne obbliga la registrazione.
Sorge infine un'ulteriore difficoltà, segnalata ancora da Quintarelli. Il comma parla di tracciabilità e di indirizzi IP, ma probabilmente il legislatore non si è reso conto che nei locali che offrono accesso Wi-Fi vengono ovviamente assegnati indirizzi di rete privati, non certo pubblici, ossia informazioni che non servono a tracciare alcunché.
«Quella frase» - scrive Quintarelli nel proprio blog - «ha senso solo se si pensa che ogni utente connesso riceve un IP address pubblico (che, nel mondo, sono praticamente esauriti)»; ma, anche volendo giustificare il legislatore affermando che di indirizzi IPv6 ce n'è in abbondanza, sorgerebbe un nuovo problema, poiché un bar che offra indirizzi pubblici si trasforma di colpo in un Internet Service Provider.
Insomma, pare che la liberalizzazione del Wi-Fi abbia preso ancora una volta una direzione sbagliata, e l'impressione chiara è che ciò avvenga perché a stendere le norme non vengono chiamate persone che hanno una chiara e precisa conoscenza tecnica di quanto si sta chiedendo.
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