Un approccio in stile "new economy" per il settore della distribuzione.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 06-05-2003]
Il centro commerciale è figlio dell'ideologia che basa l'economia capitalistica sull'espansione infinita dei consumi. Nel centro commerciale non è mai giorno e non è mai notte, non piove mai, non c'è mai il sole, neanche nuvoloso. Non c'è mai freddo, né caldo, né troppo secco od umido.
Tutto è costante, quasi come se gli imprenditori, quei signori che hanno progettato e costruito l'impianto, avessero voluto mettere al riparo la clientela dalle loro stesse fobie ed apprensioni.
I grandi capitani d'industria, si sa, temono come la morte le oscillazioni del mercato, le variazioni climatiche, il cambio di umori, i cambiamenti sociali. Baratterebbero volentieri anni di prosperità economica instabile, con periodi di piatta depressione, in cui però sia possibile prevedere tutto.
La domanda che pochi si pongono, entrando in questi mega-qualcosa, è: chi paga tutto questo. Luce, climatizzazione, ammortamenti di queste faraoniche strutture, piante, giardini, manutenzioni, pulizie, musica e quant'altro serva a creare questo ambiente artificiale, sono tutte voci di costo che hanno un peso enorme.
A pagare, ovviamente, è l'utente, o meglio, il consumatore, che si ritrova un sovrapprezzo per le merci acquistate, e che viene invogliato a comprare ogni sorta di prodotti inutili da infernali percorsi obbligati.
Tutto ciò è un fatto risaputo. Ma c'è una novità: questo tipo di distribuzione, importata acriticamente dagli Usa, non ha futuro. L'ambiente non può sostenere la selvaggia espansione dei consumi ed i consumatori se ne stanno accorgendo: c'è un grande movimento popolare, erroneamente chiamato no-global, che affronta in maniera critica tutte le proposte del "mercato".
La popolarità che stanno guadagnando queste istanze è sempre maggiore, ed appare essere inarrestabile. Non tutti saranno colpiti da queste idee, ma è innegabile che esse potranno condizionare le decisioni dei capitalisti, non abbastanza corazzati da ignorare queste tendenze irreversibili.
In questo clima sociale "fluido", non è saggio intraprendere attività faraoniche: troppo alti sono i costi, troppo alti i volumi attesi per poterli affrontare, troppo eco-invasivo l'impianto e soprattutto l'incitamento al consumo necessario per raggiungere il punto di break-even (cioè il sospirato punto in cui i ricavi pareggiano i costi: da lì in poi si comincia a guadagnare).
In un'economia eco-sostenibile, di minimo impatto e mirante a valorizzare le particolarità locali, strutture del genere non hanno più senso: chi sarebbe tanto sprovveduto da investire soldi (molti soldi!) in un'attività non conforme alle strategie di sviluppo future?
Se queste strutture di aggregazione e incitamento alla spesa sono destinate a sparire, cosa possiamo fare per sostituirle, o meglio, per accelerarne la dipartita? Le strade sono due: i micro mercati locali, oppure l'e-commerce.
Mi rendo conto di aver messo il dito su una piaga ancora fresca: non è semplice parlare di e-commerce dopo il tracollo del Nasdaq del 2001 (agosto, non settembre: bin Laden non c'entra) con i piccoli risparmiatori truffati dalla borsa, e i piccoli imprenditori che hanno buttato denaro dalla finestra per siti di e-business che non sono in grado di far rendere a sufficienza. Tuttavia dobbiamo decidere il nostro atteggiamento nei confronti della new economy: o la si considera solo una truffa, o si pensa che sia possibile recuperare qualcosa da questa tumultuosa esperienza.
Per il momento, evitiamo di frequentare i mostruosi centri commerciali, e interconnettiamoci. Scambiamoci cioè informazioni su botteghe ed e-shop che vendano prodotti di alta qualità, equi e solidali, a basso costo, cerchiamo nuove forme di commercio, tipo gruppi di acquisto, magari a livello di quartiere o di condominio.
Esempi? Ce ne sono. Come il network etico, una delle iniziative collegate a Jacopo Fo.
Solidarietà ed ecosostenibilità: forse è questo il futuro della new economy.(Un grazie a Francesca Cellina per il materiale fornito)
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