L'insulto su Facebook costa a un uomo il posto di lavoro.
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 19-02-2015]
La vicenda ha inizio nel 2012. Un uomo, legato a un'azienda da contratti a termine, allo scadere degli stessi viene lasciato a casa. Dopo essere ricorso al tribunale, a maggio 2014 viene reintegrato nel posto di lavoro.
Poteva finire tutto lì ma l'uomo, il giorno stesso in cui torna al lavoro, pubblica sul proprio profilo Facebook un post in cui si vanta del reintegro insultando i datori di lavoro (condannati a riassumerlo in azienda e a pagare gli arretrati) ma si lamenta dell'accoglienza da parte delle colleghe.
L'uomo le definisce MILF, un acronimo inglese che chi frequenta Internet ha probabilmente incontrato: non è certo un complimento dato che, come spiega Wikipedia, significa «Madre che mi vorrei scopare».
Il post continua con poco delicate allusioni sulla scarsa attività sessuale delle colleghe, ree di averlo accolto a suon di «bacetti», e l'invito a rivolgersi a un gigolò per soddisfare le proprie voglie.
Non ci vuole molto perché l'azienda venga a conoscenza di quanto l'uomo ha scritto su Facebook e perché scatti un nuovo licenziamento, causato proprio da quelle parole.
L'uomo si rivolge al tribunale di Ivrea ammettendo di aver scritto le frasi offensive ma asserendo che il licenziamento sarebbe stato una punizione sproporzionata; stavolta però perde: il giudice ritiene infatti che la condotta del dipendente licenziato giustifichi pienamente il provvedimento preso dall'azienda.
I motivi sono diversi. Intanto, il fatto che il post incriminato non era visibile esclusivamente agli amici ma era pubblico, e pertanto accessibile quantomeno a tutti gli utenti di Facebook.
Inoltre - come scrive il giudice nella sentenza, «I reiterati insulti gratuiti profferiti non solo nei confronti dei propri superiori [...] ma soprattutto di colleghe del tutto estranee alle controversie che hanno contrapposto il sig. X al proprio ex datore di lavoro risultano assolutamente gravi, in quanto denotano la volontà del ricorrente di diffamare sia la società, sia parte dei dipendenti con le modalità potenzialmente più offensive dell’altrui reputazione».
Il particolare, l'uso dell'acronimo MILF viene ritenuto grave, in quanto parola «ormai divenuta sinonimo di pornostar al termine della carriera, con evidente caratterizzazione negativa, sia in relazione all’attività del soggetto, sia all’età avanzata in relazione alla professione medesima».
«Insomma» - conclude il giudice - «davvero è difficile comprendere come la convenuta potrebbe pensare di mantenere in vita un rapporto di lavoro con un soggetto che, a mente fredda e senza alcun tipo di provocazione da parte di colleghe, ma solo in ragione di una accoglienza troppo amicale, le abbia sostanzialmente definite, coram populo, vecchie prostitute senza clienti».
L'uomo, oltre ad aver perso il lavoro, dovrà anche pagare le spese processuali.
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