I principi della competitività tra più operatori è invocato da tutti, politici e consumatori. Ma siamo sicuri che questo ddl li favorisca?
[ZEUS News - www.zeusnews.it - 14-02-2003]
Le difficoltà legate alla tutela della concorrenza in un mercato sostanzialmente oligopolistico con forti barriere all'entrata come quello radiotelevisivo sono difficilmente sormontabili; chi agisce per impedire il formarsi di posizioni dominanti in un contesto simile incorre in un grosso rischio, quello di creare un ingessamento ulteriore. Allo stato attuale, il settore televisivo non presenta elementi di concorrenzialità, con pochi network e molto grossi e costi di entrata e di uscita parecchio alti, per cui il margine per un vero rinnovamento parte da subito molto assottigliato.
Il ddl Gasparri sembra prendere di petto la questione e al Capo I (Principi generali), Art. 5 (Principi a salvaguardia del pluralismo del sistema radiotelevisivo), punto a) dichiara che il sistema radiotelevisivo si conforma alla "Tutela della concorrenza nel mercato radiotelevisivo e dei mezzi di comunicazione di massa e nel mercato della pubblicità, vietandosi qualsiasi atto o comportamento avente per effetto la costituzione o il mantenimento di una posizione dominante da parte di uno stesso soggetto, anche attraverso soggetti controllati o collegati, ed assicurandosi la trasparenza degli assetti proprietari".
Su queste basi, l'entrata di nuovi soggetti sulla scena potrebbe risultare poco più di un proposito lodevole. Ma gli aspetti più indicativi in materia li si può trovare nel Capo II (Tutela della concorrenza e del mercato) agli articoli 11,12 e 13 inerenti rispettivamente l'accertamento della sussistenza di posizioni dominanti nel sistema integrato delle comunicazioni, il limite al cumulo dei programmi televisivi e radiofonici e i limiti alla raccolta delle risorse del sistema stesso. Oltre alle forti restrizioni relative alle concentrazioni contenute nei 5 commi dell'articolo 11, all'articolo 12 (quello che ha fatto più discutere) pare si intenda la volontà di non favorire, quantomeno apertamente, il gruppo nella cui proprietà figura il Presidente del Consiglio nei confronti del gruppo televisivo di Stato. Esso riporta infatti quanto segue:
Nei 4 commi dell'articolo 13 (Limiti alla raccolta delle risorse nel sistema integrato delle comunicazioni) viene esposto il criterio in base al quale identificare una posizione dominante: la discriminante non è solamente come in passato il numero di emittenti appartenenti a ciascun soggetto, bensì anche la percentuale dei ricavi su quella complessiva del mercato. Recita il punto 3:
"Gli organismi di telecomunicazioni (...) i cui ricavi nel mercato dei servizi di telecomunicazioni (...) sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel mercato non possono conseguire nel settore integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del settore medesimo".
E però viene da chiedersi: se un soggetto titolare del 25% delle emittenti opera bene e consegue ricavi per una percentuale relativa al 41% ed oltre del totale complessivo, perché deve essere penalizzato? A queste condizioni, l'incentivo a far meglio incappa in un limite antiliberale. La concorrenza è un processo dinamico e in un tale contesto fissare percentuali a priori sui ricavi potrebbe sembrare un controsenso.
Per quanto il ddl si industri, poi, una legge autenticamente liberale non può prescindere da una cessione a privati di almeno 2 reti RAI, con conseguente ridimensionamento del ruolo dell'ente pubblico, ormai relegato a puro centro di potere. Ma su questo argomento avremo modo di ritornare.
Più che da provvedimenti governativi, la struttura oligopolistica del mercato radiotelevisivo potrà essere resa maggiormente concorrenziale dall'incontro fra operatori del settore e consumatori. I primi dovranno cercare di realizzare dei prodotti la cui fruibilità sia semplice anche per chi ha scarsa familiarità con le nuove tecnologie; i secondi invece potranno godere appieno di un'offerta dalle potenzialità sicuramente maggiori rispetto alla tv tradizionale, ma ben più complicata da usare e conoscere, solo con l'acquisizione di una maggior familiarità con esse anche attraverso un confronto indiretto: sul lavoro, ad esempio, sempre più persone devono usare volenti o nolenti il computer. E' senz'altro il primo passo per un'alfabetizzazione spendibile in altri campi. Il clic del telecomando cambia forma, è necessario usare più media in combinazione anche per un atto apparentemente banale come può essere l'acquisto di un film in pay per view e non tutti sono attualmente in grado di farlo.
Ciononostante, sebbene l'età media del pubblico della tv generalista sia sempre più alta, la disaffezione da parte dei più giovani nei confronti della tv tradizionale è evidente. Si tratta, giova ricordarlo, della fascia di consumatori a maggiore coefficiente tecnologico e questo è di sicuro un fattore strategico cui prestare attenzione. Gli attori presenti sul mercato radiotelevisivo dovrebbero più in generale concentrare i loro sforzi sull'innovazione user friendly e non sulla difesa di privilegi duopolistici, grandi o piccoli che siano, a partire dall'eliminazione delle licenze per la trasmissione della cui legittimità parleremo nella prossima puntata. Tali processi strutturali necessitano di adattamento - e dunque di tempo - anche da parte dei consumatori. L'arretratezza del nostro Paese non lascia molto spazio agli entusiasmi del presente, ma i cambiamenti prima o poi arrivano e l'ora di innovare è adesso molto più vicina di quanto sembri.
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